Pubblicato nella collana I Libri Gialli di Mondadori nel 1936, L’albergo delle tre rose è uno dei romanzi più belli dello scrittore romano Augusto De Angelis. Protagonista di questo come della maggior parte delle opere dell’autore è il commissario della Squadra Mobile Milanese Carlo De Vincenzi, all’epoca dei fatti narrati trentacinquenne.
La vicenda si svolge in unità di tempo e di luogo: nella notte umida e piovosa fra il 5 e il 6 Dicembre 1919 in un piccolo albergo del centro di Milano, compiacente ritrovo per gioco d’azzardo, droga e alcol. E un altro vizio ancora più pericoloso: l’omicidio.
Una catena di delitti che sembra inarrestabile scuote la routine dell’Albergo delle tre rose: il cadavere di un giovane, prima pugnalato a morte, viene appeso con macabra messa in scena alla trave di un pianerottolo, un levantino incline al ricatto è messo a tacere per sempre, una giovane donna (troppo) romantica e fiduciosa giace riversa con gli occhielli di un paio di forbici che spuntano dalla schiena. Quest’ultima per fortuna si salverà. Un altro cliente è ucciso da un colpo di pistola esploso attraverso un cuscino che attutisce il rumore.
Tutto lascia pensare che si tratti di un regolamento di conti fra stranieri (ma in buona parte oriundi), americani, inglesi o comunque appartenenti ai paesi che in seguito avrebbero costituito il Commonwealth, raccolti proprio in quell’alberghetto di dubbia fama per ascoltare la lettura del testamento di un uomo dal passato molto oscuro. Un grumo di odio e avidità che affonda le proprie radici in un lontano massacro compiuto durante la sanguinosa guerra coloniale a cavallo fra il XIX e il XX secolo fra inglesi e boeri nell’attuale Sud Africa. Un massacro crudele che viene ricostruito e rievocato con stile sobrio e asciutto che nulla toglie all’impatto emotivo: la notte tropicale, gli spari, i cadaveri delle bambine gettati nel fiume in pasto ai coccodrilli, il padre impiccato a una trave di casa, i diamanti sottratti con la violenza, i suoni e rumori degli animali della savana, le bambole di porcellana sottratte alle piccole vittime che assumeranno un ruolo sorprendente nell’evoluzione della vicenda. Il fratello superstite che giura vendetta.
Il commissario De Vincenzi intuisce che il movente degli omicidi si annida proprio in quelle ultime volontà. La grande ricchezza di cui si dispone gronda il sangue di vittime innocenti: vendetta o interesse armano la mano dell’assassino? E quali sono i suoi complici, se ne ha?
Tutte domande a cui questo originale e tuttora attualissimo poliziotto italiano darà risposta inesorabile nelle ultime pagine, proprio come in ogni giallo degno di questo nome.
Metodico, razionale, buon ascoltatore e attento osservatore, Carlo De Vincenzi non rispetta il clichè dell’investigatore dell’epoca: crede nella psicologia piuttosto che nelle maniere forti, raccoglie indizi e dettagli lasciati cadere con apparente casualità in una frase o su un foglietto, poi li compone fino a formare delle prove che confortano la sua plausibile ricostruzione (e non il contrario, come invece avviene talvolta anella realtà, quando ogni elemento viene piegato all’esigenza di supportare stravaganti ma comode interpretazioni dei fatti). De Vincenzi è relativamente giovane per coprire un ruolo così impegnativo alla questura di Milano, ma i suoi metodi non del tutto ortodossi visti i tempi in cui egli vive o che si preparano (L’Albergo delle tre rose è ambientato ben tre anni prima della marcia su Roma) gli permettono di risolvere indagini complesse e di guadagnare la stima dei suoi superiori, sia nelle amate e in fondo rassicuranti brume milanesi che nel clima più mite ma anche più infido della capitale.
Protagonista a buon diritto della storia del giallo italiano, il commissario De Vincenzi compare in una ventina di romanzi e racconti, poco meno della totalità che De Angelis scrisse in una dozzina d’anni di febbrile e fertile attività prima che la bufera della guerra lo travolgesse. Spirito libertario e insofferente alle restrizioni ipocrite della logica di una dittatura, lo scrittore fu anche incarcerato per attività antifasciste, un’esperienza durissima da cui uscì con la salute compromessa. Nei giorni torbidi della Repubblica di Salò, venne aggredito e malmenato da un energumeno fascista e morì dopo pochi giorni di agonia, all’età di 56 anni. Una fine tragica e dolorosa in un contesto storico di pari drammaticità.
Per molti lettori e altrettanti addetti ai lavori Augusto De Angelis è stato il più importante interprete del giallo all’italiana nel periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale. In realtà egli fu anche profondo conoscitore della narrativa di genere, e in questo senso autore di un saggio fondamentale sul giallo, pubblicato originariamente a metà degli anni ’30 del secolo scorso e di nuovo nel 1980 per meritevole interessamento di Oreste Del Buono, che gli diede il titolo apocrifo ma non per questo meno adeguato di Conferenza sul giallo (in tempi neri). In esso De Angelis rivendicava a buon diritto la possibilità di ambientare gialli in Italia, rigettando l’ostacolo, poco meno che ideologico, posto da coloro che per malintesa esterofilia consideravano la nostra terra del tutto priva della storia e dell’humus culturale che rappresentano il vero bacino di cultura dei germi benefici del mystery. In realtà De Angelis sapeva benissimo che il vero pericolo per i cultori e gli appassionati del giallo consisteva nell’atteggiamento ambiguo del regime verso la letteratura del mistero: dapprima aveva preteso che una quota parte della pubblicazione delle case editrici venisse riservata ad autori italiani, in una sorta di positiva autarchia, ma in seguito cominciò un’opera di pesante condizionamento, imponendo una serie di limitazioni coerenti con la politica del fascismo, reduce da una complessa operazione sulla società italiana da cui sosteneva di aver rimosso le cause profonde del crimine. Ecco spiegato perchè gli avventurieri che si danno ritrovo nell’Albergo delle tre rose per ascoltare la lettura del testamento del maggiore Harry Alton sono stranieri, i ricattatori sono apolidi o levantini di ambigua origine e l’unico peccato, o vizio che dir si voglia, dei personaggi italiani consiste nel tirar tardi giocando a tressette o picchetto e a sopravvivere di espedienti dopo esistenze dissolute. Malgrado tutti i condizionamenti cui deve sottostare, De Angelis scrive una storia di grande atmosfera e ineccepibile struttura, che conserva tuttora intatta la propria freschezza e solidità d’impianto, le caratteristiche che permettono a un giallo classico di sopravvivere ed essere apprezzato anche dopo molti anni, come un vino di classe e stoffa invecchiato secondo le regole.
Il commissario De Vincenzi è stato anche protagonista di una serie di sceneggiati televisivi, trasmessi dalla RAI nella primavera del 1974 e in quella del 1977, composta di tre episodi in due puntate ciascuno. La prima serie è tratta da tre romanzi ambientati a Milano (L’albergo delle tre rose, Il mistero delle tre orchidee, Il candelabro a sette fiamme), la seconda da un paio nella capitale (Il mistero di Cinecittà e Il do tragico) e da un terzo, La barchetta di cristallo, che sulla carta si svolge nella città meneghina ma nello sceneggiato a Roma.
Il personaggio creato da De Angelis è interpretato magistralmente da Paolo Stoppa che all’epoca in cui fu girato lo sceneggiato aveva oltre trent’anni di più rispetto al De Vincenzi letterario. Non è l’unico elemento in cui la sceneggiatura si discosta dall’originale: la collocazione temporale in cui si svolge la storia, ancora una nottata, viene spostata dal 1919 al 1935. Che giorno? Be’, questo lo scopriamo dal dialogo fra De Vincenzi e il vice commissario Sani: quest’ultimo dice che l’indomani vorrebbe andare allo stadio per assistere alla partita Ambrosiana Inter – Lazio. Dunque è ancora una volta un sabato sera, ma qui cominciano i dubbi. Perchè domenica 15 Dicembre 1935 quella partita si svolse davvero (Meazza contro Piola, che scontro! commenta De Vincenzi), ma fu disputata a Roma e non a Milano (e terminò 0-0). Il ritorno si giocò il 12 Aprile dell’anno seguente e vinsero i milanesi per 3-1. Probabilmente il vice commissario Sani era molto provato per la veglia in un albergo pieno più di morti che di vivi.
Le differenze fra romanzo e sceneggiato sono quelle legate alle esigenze televisive, quindi trama e personaggi vengono semplificati e piegati ai tempi narrativi compressi in due puntate di poco più di un’ora ciascuna. Ma è su Carlo De Vincenzi che la sceneggiatura lavora con maggiore cura e dettaglio, non solo per la notevole differenza d’età fra quello letterario e il suo alter ego televisivo. Quest’ultimo infatti manifesta una sottile ma chiara insofferenza per le manifestazione del regime con cui deve confrontarsi quotidianamente nel suo lavoro: ironizza velatamente sulle frasi ipocrite e arzigogolate di un quotidiano che spaccia per incidente domestico il suicidio di un commerciante, rifiuta ostentatamente di rispondere alle telefonate del questore (che resta un’entità astratta, un telefono che squilla, un ricevitore che non verrà passato mai alla mano del commissario) e rimane indifferente all’evoluzione dell’avanzata delle truppe italiane in Abissinia, testimoniate dalle bandierine che il solerte Sani appunta su una gigantesca carta geografica. Una libera interpretazione di ciò che De Angelis pensava ma non poteva manifestare a suo tempo, che lascia sorgere un dubbio già affrontato esaminando l’opera letteraria: i suoi superiori devono chiudere un occhio non solo su metodi in parte anticonvenzionali ma anche sulle posizioni politicamente tiepide, per non dire frondiste o peggio ancora antifasciste del commissario. Un investigatore tanto abile nelle indagini quanto a far spazientire il questore di turno. Battute apparentemente innocenti e tuttavia con un sapido retrogusto di sarcasmo, sguardi eloquenti come fiumi di parole, la mimica e l’espressività allenata da decenni di palcoscenici di uno dei più grandi attori italiani, capace di spaziare dal teatro al cinema alla televisione senza perdere nulla in classe, misura e presenza scenica sono il repertorio con cui Stoppa interpreta il maniera esemplare il commissario di Augusto De Angelis. Una grande prova cui fanno degno corollario ne L’albergo delle tre rose attori di spessore e intensità come Pino Colizzi,Eros Pagni e Anna Maria Guarnieri (tutti e tre ancora felicemente attivi) e il bravissimo caratterista (termine non limitativo perchè comprende gran parte di coloro che fecero grande la commedia all’italiana per quasi un trentennio) Umberto D’Orsi, prematuramente scomparso in un grave incidente stradale. Per questi motivi, e per la nostalgia che sempre spunta per tanta bella televisione di una volta, gli sceneggiati diretti da Mario Ferrero vengono ricordati con simpatia da tutti gli appassionati di giallo. Un ricordo con un filo di malinconia cui non è estranea la confezione semplice e curata, con i titoli di testa che scorrono su spezzoni di filmati dell’Istituto Luce e il tema musicale del maestro Bruno Nicolai che miscela ritmi d’epoca, sbarazzini e un po’ ingenui o marziali a seconda delle immagini che scorrono sullo schermo, e quelli di coda che seguono Paolo Stoppa passeggiare negli scorci più suggestivi di Milano fino in Galleria, accompagnato da una colonna sonora vagamente struggente.
Già, perchè Carlo De Vincenzi, sebbene creato da uno scrittore romano, è un poliziotto calato nella realtà di Milano, e quindi è a buon diritto il primo anello di una catena che si snoderà ancora a lungo, dal Duca Lamberti di Giorgio Scerbanenco della seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso fino al commissario Giulio Ambrosio di Renato Olivieri nel decennio successivo. Una catena che non si è mai spezzata, anzi continuerà a sgranarsi con altre storie e altri personaggi nella tradizione del giallo classico italiano. E forse è proprio questa la migliore ricompensa postuma che un destino crudele e cinico poteva riservare allo schivo, intelligente e dignitoso Augusto De Angelis, che sosteneva a ragione la possibilità di scrivere e ambientare gialli credibili anche in Italia.
di Enrico Luceri
La vicenda si svolge in unità di tempo e di luogo: nella notte umida e piovosa fra il 5 e il 6 Dicembre 1919 in un piccolo albergo del centro di Milano, compiacente ritrovo per gioco d’azzardo, droga e alcol. E un altro vizio ancora più pericoloso: l’omicidio.
Una catena di delitti che sembra inarrestabile scuote la routine dell’Albergo delle tre rose: il cadavere di un giovane, prima pugnalato a morte, viene appeso con macabra messa in scena alla trave di un pianerottolo, un levantino incline al ricatto è messo a tacere per sempre, una giovane donna (troppo) romantica e fiduciosa giace riversa con gli occhielli di un paio di forbici che spuntano dalla schiena. Quest’ultima per fortuna si salverà. Un altro cliente è ucciso da un colpo di pistola esploso attraverso un cuscino che attutisce il rumore.
Tutto lascia pensare che si tratti di un regolamento di conti fra stranieri (ma in buona parte oriundi), americani, inglesi o comunque appartenenti ai paesi che in seguito avrebbero costituito il Commonwealth, raccolti proprio in quell’alberghetto di dubbia fama per ascoltare la lettura del testamento di un uomo dal passato molto oscuro. Un grumo di odio e avidità che affonda le proprie radici in un lontano massacro compiuto durante la sanguinosa guerra coloniale a cavallo fra il XIX e il XX secolo fra inglesi e boeri nell’attuale Sud Africa. Un massacro crudele che viene ricostruito e rievocato con stile sobrio e asciutto che nulla toglie all’impatto emotivo: la notte tropicale, gli spari, i cadaveri delle bambine gettati nel fiume in pasto ai coccodrilli, il padre impiccato a una trave di casa, i diamanti sottratti con la violenza, i suoni e rumori degli animali della savana, le bambole di porcellana sottratte alle piccole vittime che assumeranno un ruolo sorprendente nell’evoluzione della vicenda. Il fratello superstite che giura vendetta.
Il commissario De Vincenzi intuisce che il movente degli omicidi si annida proprio in quelle ultime volontà. La grande ricchezza di cui si dispone gronda il sangue di vittime innocenti: vendetta o interesse armano la mano dell’assassino? E quali sono i suoi complici, se ne ha?
Tutte domande a cui questo originale e tuttora attualissimo poliziotto italiano darà risposta inesorabile nelle ultime pagine, proprio come in ogni giallo degno di questo nome.
Metodico, razionale, buon ascoltatore e attento osservatore, Carlo De Vincenzi non rispetta il clichè dell’investigatore dell’epoca: crede nella psicologia piuttosto che nelle maniere forti, raccoglie indizi e dettagli lasciati cadere con apparente casualità in una frase o su un foglietto, poi li compone fino a formare delle prove che confortano la sua plausibile ricostruzione (e non il contrario, come invece avviene talvolta anella realtà, quando ogni elemento viene piegato all’esigenza di supportare stravaganti ma comode interpretazioni dei fatti). De Vincenzi è relativamente giovane per coprire un ruolo così impegnativo alla questura di Milano, ma i suoi metodi non del tutto ortodossi visti i tempi in cui egli vive o che si preparano (L’Albergo delle tre rose è ambientato ben tre anni prima della marcia su Roma) gli permettono di risolvere indagini complesse e di guadagnare la stima dei suoi superiori, sia nelle amate e in fondo rassicuranti brume milanesi che nel clima più mite ma anche più infido della capitale.
Protagonista a buon diritto della storia del giallo italiano, il commissario De Vincenzi compare in una ventina di romanzi e racconti, poco meno della totalità che De Angelis scrisse in una dozzina d’anni di febbrile e fertile attività prima che la bufera della guerra lo travolgesse. Spirito libertario e insofferente alle restrizioni ipocrite della logica di una dittatura, lo scrittore fu anche incarcerato per attività antifasciste, un’esperienza durissima da cui uscì con la salute compromessa. Nei giorni torbidi della Repubblica di Salò, venne aggredito e malmenato da un energumeno fascista e morì dopo pochi giorni di agonia, all’età di 56 anni. Una fine tragica e dolorosa in un contesto storico di pari drammaticità.
Per molti lettori e altrettanti addetti ai lavori Augusto De Angelis è stato il più importante interprete del giallo all’italiana nel periodo precedente la Seconda Guerra Mondiale. In realtà egli fu anche profondo conoscitore della narrativa di genere, e in questo senso autore di un saggio fondamentale sul giallo, pubblicato originariamente a metà degli anni ’30 del secolo scorso e di nuovo nel 1980 per meritevole interessamento di Oreste Del Buono, che gli diede il titolo apocrifo ma non per questo meno adeguato di Conferenza sul giallo (in tempi neri). In esso De Angelis rivendicava a buon diritto la possibilità di ambientare gialli in Italia, rigettando l’ostacolo, poco meno che ideologico, posto da coloro che per malintesa esterofilia consideravano la nostra terra del tutto priva della storia e dell’humus culturale che rappresentano il vero bacino di cultura dei germi benefici del mystery. In realtà De Angelis sapeva benissimo che il vero pericolo per i cultori e gli appassionati del giallo consisteva nell’atteggiamento ambiguo del regime verso la letteratura del mistero: dapprima aveva preteso che una quota parte della pubblicazione delle case editrici venisse riservata ad autori italiani, in una sorta di positiva autarchia, ma in seguito cominciò un’opera di pesante condizionamento, imponendo una serie di limitazioni coerenti con la politica del fascismo, reduce da una complessa operazione sulla società italiana da cui sosteneva di aver rimosso le cause profonde del crimine. Ecco spiegato perchè gli avventurieri che si danno ritrovo nell’Albergo delle tre rose per ascoltare la lettura del testamento del maggiore Harry Alton sono stranieri, i ricattatori sono apolidi o levantini di ambigua origine e l’unico peccato, o vizio che dir si voglia, dei personaggi italiani consiste nel tirar tardi giocando a tressette o picchetto e a sopravvivere di espedienti dopo esistenze dissolute. Malgrado tutti i condizionamenti cui deve sottostare, De Angelis scrive una storia di grande atmosfera e ineccepibile struttura, che conserva tuttora intatta la propria freschezza e solidità d’impianto, le caratteristiche che permettono a un giallo classico di sopravvivere ed essere apprezzato anche dopo molti anni, come un vino di classe e stoffa invecchiato secondo le regole.
Il commissario De Vincenzi è stato anche protagonista di una serie di sceneggiati televisivi, trasmessi dalla RAI nella primavera del 1974 e in quella del 1977, composta di tre episodi in due puntate ciascuno. La prima serie è tratta da tre romanzi ambientati a Milano (L’albergo delle tre rose, Il mistero delle tre orchidee, Il candelabro a sette fiamme), la seconda da un paio nella capitale (Il mistero di Cinecittà e Il do tragico) e da un terzo, La barchetta di cristallo, che sulla carta si svolge nella città meneghina ma nello sceneggiato a Roma.
Il personaggio creato da De Angelis è interpretato magistralmente da Paolo Stoppa che all’epoca in cui fu girato lo sceneggiato aveva oltre trent’anni di più rispetto al De Vincenzi letterario. Non è l’unico elemento in cui la sceneggiatura si discosta dall’originale: la collocazione temporale in cui si svolge la storia, ancora una nottata, viene spostata dal 1919 al 1935. Che giorno? Be’, questo lo scopriamo dal dialogo fra De Vincenzi e il vice commissario Sani: quest’ultimo dice che l’indomani vorrebbe andare allo stadio per assistere alla partita Ambrosiana Inter – Lazio. Dunque è ancora una volta un sabato sera, ma qui cominciano i dubbi. Perchè domenica 15 Dicembre 1935 quella partita si svolse davvero (Meazza contro Piola, che scontro! commenta De Vincenzi), ma fu disputata a Roma e non a Milano (e terminò 0-0). Il ritorno si giocò il 12 Aprile dell’anno seguente e vinsero i milanesi per 3-1. Probabilmente il vice commissario Sani era molto provato per la veglia in un albergo pieno più di morti che di vivi.
Le differenze fra romanzo e sceneggiato sono quelle legate alle esigenze televisive, quindi trama e personaggi vengono semplificati e piegati ai tempi narrativi compressi in due puntate di poco più di un’ora ciascuna. Ma è su Carlo De Vincenzi che la sceneggiatura lavora con maggiore cura e dettaglio, non solo per la notevole differenza d’età fra quello letterario e il suo alter ego televisivo. Quest’ultimo infatti manifesta una sottile ma chiara insofferenza per le manifestazione del regime con cui deve confrontarsi quotidianamente nel suo lavoro: ironizza velatamente sulle frasi ipocrite e arzigogolate di un quotidiano che spaccia per incidente domestico il suicidio di un commerciante, rifiuta ostentatamente di rispondere alle telefonate del questore (che resta un’entità astratta, un telefono che squilla, un ricevitore che non verrà passato mai alla mano del commissario) e rimane indifferente all’evoluzione dell’avanzata delle truppe italiane in Abissinia, testimoniate dalle bandierine che il solerte Sani appunta su una gigantesca carta geografica. Una libera interpretazione di ciò che De Angelis pensava ma non poteva manifestare a suo tempo, che lascia sorgere un dubbio già affrontato esaminando l’opera letteraria: i suoi superiori devono chiudere un occhio non solo su metodi in parte anticonvenzionali ma anche sulle posizioni politicamente tiepide, per non dire frondiste o peggio ancora antifasciste del commissario. Un investigatore tanto abile nelle indagini quanto a far spazientire il questore di turno. Battute apparentemente innocenti e tuttavia con un sapido retrogusto di sarcasmo, sguardi eloquenti come fiumi di parole, la mimica e l’espressività allenata da decenni di palcoscenici di uno dei più grandi attori italiani, capace di spaziare dal teatro al cinema alla televisione senza perdere nulla in classe, misura e presenza scenica sono il repertorio con cui Stoppa interpreta il maniera esemplare il commissario di Augusto De Angelis. Una grande prova cui fanno degno corollario ne L’albergo delle tre rose attori di spessore e intensità come Pino Colizzi,Eros Pagni e Anna Maria Guarnieri (tutti e tre ancora felicemente attivi) e il bravissimo caratterista (termine non limitativo perchè comprende gran parte di coloro che fecero grande la commedia all’italiana per quasi un trentennio) Umberto D’Orsi, prematuramente scomparso in un grave incidente stradale. Per questi motivi, e per la nostalgia che sempre spunta per tanta bella televisione di una volta, gli sceneggiati diretti da Mario Ferrero vengono ricordati con simpatia da tutti gli appassionati di giallo. Un ricordo con un filo di malinconia cui non è estranea la confezione semplice e curata, con i titoli di testa che scorrono su spezzoni di filmati dell’Istituto Luce e il tema musicale del maestro Bruno Nicolai che miscela ritmi d’epoca, sbarazzini e un po’ ingenui o marziali a seconda delle immagini che scorrono sullo schermo, e quelli di coda che seguono Paolo Stoppa passeggiare negli scorci più suggestivi di Milano fino in Galleria, accompagnato da una colonna sonora vagamente struggente.
Già, perchè Carlo De Vincenzi, sebbene creato da uno scrittore romano, è un poliziotto calato nella realtà di Milano, e quindi è a buon diritto il primo anello di una catena che si snoderà ancora a lungo, dal Duca Lamberti di Giorgio Scerbanenco della seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso fino al commissario Giulio Ambrosio di Renato Olivieri nel decennio successivo. Una catena che non si è mai spezzata, anzi continuerà a sgranarsi con altre storie e altri personaggi nella tradizione del giallo classico italiano. E forse è proprio questa la migliore ricompensa postuma che un destino crudele e cinico poteva riservare allo schivo, intelligente e dignitoso Augusto De Angelis, che sosteneva a ragione la possibilità di scrivere e ambientare gialli credibili anche in Italia.
di Enrico Luceri
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