martedì 11 novembre 2008

Recensioni: "Alta cucina" di Rex Stout

Pubblicato negli Stati Uniti nel 1938 (e per la prima volta in Italia l’anno dopo nella collana Mondadori Libri Gialli), Alta cucina (Too many coocks) è il quinto romanzo di Rex Stout di cui è protagonista Nero Wolfe. Appartiene alla ristretta serie di indagini che vedono il pachidermico investigatore costretto ad abbandonare la sua comoda casa di arenaria nella 35° Strada ovest di New York per una destinazione lontana, anche se in occasione di una circostanza piacevole, almeno in teoria: partecipare in qualità di ospite d’onore alla riunione quinquennale dei Quinze maitres, la crema (è il caso di dire) dei migliori cuochi mondiali. La culinaria a livelli di eccellenza è infatti una delle due grandi passioni del geniale investigatore (l’altra è la coltivazione delle orchidee), le uniche che riescano a svellerlo dalla poltrona costruita appositamente per accogliere la sua mole pesante un settimo di tonnellata. Wolfe esercita infatti la professione di detective privato al solo scopo di procurarsi le salatissime parcelle con cui garantire il tenore di vita suo e dei propri collaboratori. Fra i quali il principale è senz’altro Archie Goodwin, dinamico e disinvolto quanto il suo principale è sedentario e misantropo (con una acclarata propensione alla misoginia), nonché suo biografo ufficiale e in tale veste vero e proprio io narrante di ogni storia. Per essere precisi non è solo l’onore di partecipare a un tale convegno la molla che spinge Wolfe ad affrontare il viaggio in treno che lo porterà fino a Kanawha Spa, nella Virginia occidentale, ma anche la prospettiva di conoscere il raffinato chef catalano Berin, creatore di una ricetta esclusiva, quella delle Salsicce mezzanotte, per la quale il monumentale investigatore sarebbe disposto a fare follie.
Se l’arte dei Quinze maitres è l’alta cucina, e quella di Wolfe consiste nell’incastrare gli assassini e spedirli in carcere (o sul patibolo), Rex Stout è invece un abile e prolifico architetto di gialli in cui la suspense si stempera spesso nell’humour e nel sarcasmo. Egli dipinge con un pennello intinto nel vetriolo le personalità degli assi del fornello, un’accolita di divi capricciosi, invidiosi e capaci di colpi bassi tanto meschini quanto puerili pur di non riconoscere i meriti dei colleghi. Niente da stupirsi se la vittima dell’inevitabile omicidio è Philip Laszio, così spregiudicato da permettersi la licenza di sottrarre spudoratamente ai colleghi ricette segrete, incarichi in ristoranti di lusso e perfino le mogli. Eccentrica è anche la scena del crimine: una sala in cui a turno i grandi cuochi si cimentano nell’impresa di individuare gli ingredienti mancanti in una salsa del tutto speciale.
Bisogna ammettere che in condizioni particolari, privo del conforto del proprio ambiente e delle piacevoli consuetudini di una giornata scandita da rituali di maniacale precisione (visita mattutina e pomeridiana alla serra, boccali di birra serviti nello studio, letture impegnative che rappresentano un formidabile incentivo alle sue fulminanti intuizioni investigative) Wolfe se la cava benissimo. La sua indagine è la meticolosa e paziente ricerca di una piccola ma determinante crepa nella diga eretta dall’assassino, che opportunamente allargata attraverso una serie di magistrali interrogatori di testi inconsapevoli o reticenti permette una lucida ricostruzione del delitto, smantellando un alibi ingegnoso costruito sul filo dei minuti. E di conseguenza l’identità dell’omicida, il movente che l’ha spinto ad agire e le complicità di cui ha goduto.
Mai come in questa circostanza l’inveterata misoginia di Wolfe (che almeno in teoria il suo creatore non condivide) viene ampiamente giustificata dalla presenza di una maliarda corrotta e amorale. Archie Goodwin, che sempre in teoria dovrebbe essere complementare al suo principale, e dunque convinto ammiratore delle donne, predica male e razzola bene, ovvero si limita a un’ammirazione platonica (e qui Stout si dimostra accortamente discreto o prudentemente bacchettone a seconda dei punti di vista). Infatti quando inciampa nei bellissimi occhi di Constance, la figlia dello chef Berin, Archie non trova di meglio che schermirsi, inventandosi una moglie e una numerosissima prole. Finisce così per ritagliarsi un ruolo da Cupido che favorisce l’idillio fra la passionale ragazza e l’imbranato (con l’altro sesso, e in parte anche come magistrato) sostituto procuratore Barry Tolman.
Alta cucina non è solo un giallo costruito come un manicaretto in cui i sapori si esaltano a ogni boccone ma anche una miniera di spigolature per gli amanti del più monumentale detective della narrativa mistery. Tanto per cominciare, a pagina 159 (nell’edizione de I Classici del Giallo di cui si tratterà più avanti) Nero Wolfe afferma di non essere nato negli Stati Uniti: ebbene, per lungo tempo le biografie apocrife del geniale detective lo volevano originario di Trenton, nel New Jersey e solo qualche anno dopo di ritorno con la madre in Europa. Strano, anche perchè nel romanzo Nero Wolfe fa la spia (1954), Stout costringe (è il caso di dire) il suo personaggio più famoso a tornare addirittura nel suo paese natale, il Montenegro (e infatti il titolo originale dell’opera è The Black Mountain) per acciuffare l’assassino del suo migliore amico (nonché cuoco di punta del ristorante Rusterman di New York, e a buon diritto membro dei Quinze maitres) Marko Vukcic.
Ma c’è di più: sebbene Rex Stout sia stato un libero pensatore, dichiaratamente anticonformista e polemista ribelle alle convenzioni ipocrite di una certa società, non è però immune da espressioni assai poco politically correct di sapore vagamente (e certo involontariamente) razzista. Nel definire i camerieri afroamericani dell’albergo Kanawha Spa lo scrittore va per le spicce: essi sono negri, moretti, pronipoti dello zio Tom (quello dell’omonima capanna ai tempi più bui dello schiavismo), si rivolgono con deferenza quasi servile ai clienti dicendo “Sissignore”, vengono presi di mira, testimoni dapprima riluttanti ma in seguito decisi a compiere il proprio dovere civico, da uno sceriffo ottuso e sbrigativo (che Stout rappresenta strabico, con una fisiognomica straordinaria che allude all’incapacità del personaggio a distinguere la verità), espressione di uno stato conservatore del profondo sud statunitense come la Virginia occidentale dell’epoca, la fine degli anni ’30 del secolo scorso.
Infine, Stout chiama l’elite dei cuochi mondiali “maitres” (che in un ristorante hanno ben altro ruolo) invece di usare il termine chef che sembra molto più appropriato. D’altra parte nel prologo del romanzo il biografo-segretario-collaboratore tuttofare Archie Goodwin precisa che nel testo ricorrono termini stranieri (cioè francesi) che egli non padroneggia, dunque potrebbe essere incorso in qualche errore di locuzione o parola. Un lapsus freudiano di Rex Stout?
Pubblicato nel gennaio del 1974 nella collana I Classici del Giallo (n.181), il romanzo appare anche nell’Omnibus giallo dello stesso anno L’alta cucina del delitto, sempre nell’accurata e fedele traduzione di Alfredo Pitta. Quest’ultimo volume è arricchito da una serie di schede con le ricette più raffinate (e stravaganti) preferite da Nero Wolfe, fra cui la salsa “Printemps”, protagonista involontaria della scena del crimine a Kanawha Spa.
Un esperimento che evidentemente piacque ai lettori dei gialli di Nero Wolfe, visto che nel 1975 venne allegato all’Omnibus giallo Nero Wolfe, Archie Goodwin & Company addirittura un ricettario completo di prelibatezze citate nella vasta bibliografia del più goloso degli investigatori. Leccornie fra le quali non può mancare il menù della cena di gala al Kanawha Spa.
Dal romanzo Alta cucina venne tratto anche un episodio dello sceneggiato televisivo diretto da Giuliana Berlinguer Nero Wolfe, trasmesso il 23 febbraio del 1971 sul Programma Nazionale (l’attuale Rai1) con il titolo Salsicce Mezzanotte. Lasciando inalterato l’impianto narrativo della vicenda, l’adattamento televisivo di Belisario Randone semplifica in alcuni punti la trama (per esempio elimina del tutto la parte iniziale e finale del romanzo ambientata in treno) e riduce il numero dei personaggi, piegando lo sviluppo del giallo alle esigenze di una sceneggiatura compressa per esigenze di tempi televisivi. Oltre ai due protagonisti Nero Wolfe (un ineguagliabile e immenso, non solo fisicamente, Tino Buazzelli) e Archie Goodwin (il sornione e disinvolto Paolo Ferrari) compare anche il cuoco Fritz Brenner (Pupo De Luca, compassato e puntuale come un autentico cuoco... svizzero), assente nel romanzo.



di Enrico Luceri

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