

Bisogna ammettere che in condizioni particolari, privo del conforto del proprio ambiente e delle piacevoli consuetudini di una giornata scandita da rituali di maniacale precisione (visita mattutina e pomeridiana alla serra, boccali di birra serviti nello studio, letture impegnative che rappresentano un formidabile incentivo alle sue fulminanti intuizioni investigative) Wolfe se la cava benissimo. La sua indagine è la meticolosa e paziente ricerca di una piccola ma determinante crepa nella diga eretta dall’assassino, che opportunamente allargata attraverso una serie di magistrali interrogatori di testi inconsapevoli o reticenti permette una lucida ricostruzione del delitto, smantellando un alibi ingegnoso costruito sul filo dei minuti. E di conseguenza l’identità dell’omicida, il movente che l’ha spinto ad agire e le complicità di cui ha goduto.

Mai come in questa circostanza l’inveterata misoginia di Wolfe (che almeno in teoria il suo creatore non condivide) viene ampiamente giustificata dalla presenza di una maliarda corrotta e amorale. Archie Goodwin, che sempre in teoria dovrebbe essere complementare al suo principale, e dunque convinto ammiratore delle donne, predica male e razzola bene, ovvero si limita a un’ammirazione platonica (e qui Stout si dimostra accortamente discreto o prudentemente bacchettone a seconda dei punti di vista). Infatti quando inciampa nei bellissimi occhi di Constance, la figlia dello chef Berin, Archie non trova di meglio che schermirsi, inventandosi una moglie e una numerosissima prole. Finisce così per ritagliarsi un ruolo da Cupido che favorisce l’idillio fra la passionale ragazza e l’imbranato (con l’altro sesso, e in parte anche come magistrato) sostituto procuratore Barry Tolman.

Ma c’è di più: sebbene Rex Stout sia stato un libero pensatore, dichiaratamente anticonformista e polemista ribelle alle convenzioni ipocrite di una certa società, non è però immune da espressioni assai poco politically correct di sapore vagamente (e certo involontariamente) razzista. Nel definire i camerieri afroamericani dell’albergo Kanawha Spa lo scrittore va per le spicce: essi sono negri, moretti, pronipoti dello zio Tom (quello dell’omonima capanna ai tempi più bui dello schiavismo), si rivolgono con deferenza quasi servile ai clienti dicendo “Sissignore”, vengono presi di mira, testimoni dapprima riluttanti ma in seguito decisi a compiere il proprio dovere civico, da uno sceriffo ottuso e sbrigativo (che Stout rappresenta strabico, con una fisiognomica straordinaria che allude all’incapacità del personaggio a distinguere la verità), espressione di uno stato conservatore del profondo sud statunitense come la Virginia occidentale dell’epoca, la fine degli anni ’30 del secolo scorso.

Infine, Stout chiama l’elite dei cuochi mondiali “maitres” (che in un ristorante hanno ben altro ruolo) invece di usare il termine chef che sembra molto più appropriato. D’altra parte nel prologo del romanzo il biografo-segretario-collaboratore tuttofare Archie Goodwin precisa che nel testo ricorrono termini stranieri (cioè francesi) che egli non padroneggia, dunque potrebbe essere incorso in qualche errore di locuzione o parola. Un lapsus freudiano di Rex Stout?
Pubblicato nel gennaio del 1974 nella collana I Classici del Giallo (n.181), il romanzo appare anche nell’Omnibus giallo dello stesso anno L’alta cucina del delitto, sempre nell’accurata e fedele traduzione di Alfredo Pitta. Quest’ultimo volume è arricchito da una serie di schede con le ricette più raffinate (e stravaganti) preferite da Nero Wolfe, fra cui la salsa “Printemps”, protagonista involontaria della scena del crimine a Kanawha Spa.
Un esperimento che evidentemente piacque ai lettori dei gialli di Nero Wolfe, visto che nel 1975 venne allegato all’Omnibus giallo Nero Wolfe, Archie Goodwin & Company addirittura un ricettario completo di prelibatezze citate nella vasta bibliografia del più goloso degli investigatori. Leccornie fra le quali non può mancare il menù della cena di gala al Kanawha Spa.
Dal romanzo Alta cucina venne tratto anche un episodio dello sceneggiato televisivo diretto da Giuliana Berlinguer Nero Wolfe, trasmesso il 23 febbraio del 1971 sul Programma Nazionale (l’attuale Rai1) con il titolo Salsicce Mezzanotte. Lasciando inalterato l’impianto narrativo della vicenda, l’adattamento televisivo di Belisario Randone semplifica in alcuni punti la trama (per esempio elimina del tutto la parte iniziale e finale del romanzo ambientata in treno) e riduce il numero dei personaggi, piegando lo sviluppo del giallo alle esigenze di una sceneggiatura compressa per esigenze di tempi televisivi. Oltre ai due protagonisti Nero Wolfe (un ineguagliabile e immenso, non solo fisicamente, Tino Buazzelli) e Archie Goodwin (il sornione e disinvolto Paolo Ferrari) compare anche il cuoco Fritz Brenner (Pupo De Luca, compassato e puntuale come un autentico cuoco... svizzero), assente nel romanzo.
di Enrico Luceri
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