venerdì 13 giugno 2008

Attualità del giallo classico

Periodicamente ritorna l’annosa questione sull’attualità del giallo classico, un genere letterario che è tuttora apprezzato da buona parte di quei lettori che amano il mistero e l’indagine. Chi non trattiene l’ansia di dichiarare ormai superate le trame elaborate da Agatha Christie, John Dickson Carr, Edgar Wallace e S.S. Van Dine, solo per citarne alcuni, viene in seguito regolarmente smentito dal successo che incontrano le riedizioni dei capolavori dei maestri del genere. Come si spiega allora tanto accanimento di una sparuta avanguardia post-letteraria verso romanzi che da quasi un secolo affascinano e attraggono sempre nuovi appassionati, certi di scoprire, immancabilmente all’ultima pagina o giù di lì, che l’assassino è sempre il più insospettabile dei personaggi coinvolti nell’intrigo? Semplificando, si può scorgere dietro questa tensione iconoclasta non priva di coloriture ideologiche lo sforzo di cancellare la tradizione e sostituirla con un ibrido insipido e ambiguo sempre più spesso chiamato “contaminazione”. Un termine che rivela il programma di chi vorrebbe stilare in fretta e furia il certificato di morte del giallo classico: abolizione di decaloghi e regole che determinano le caratteristiche del genere che un tempo veniva chiamato “poliziesco” e un giorno lontano si colorò d’improvviso della tinta vivace di una storica collana Mondadori, il giallo appunto. Una fiammata rivoluzionaria, dunque, che si propone la liberalizzazione assoluta delle tematiche, abbattendo i confini rassicuranti in cui si muovono detectives e assassini, colpevoli e vittime, sospettati e innocenti, ognuno dei quali vedrà chiarito senza alcun dubbio il proprio ruolo alla fine della storia. Ombre e nebbie finiscono così per confondere i volti dei personaggi, privi di un'identità definita, così come la canonica risoluzione dell’enigma sfuma in finali aperti, lasciando la fantasia del lettore libera di scegliere la conclusione preferita. Un puro esercizio didattico che non disdegna (altrimenti che “contaminazione” sarebbe?) di annegare il pallido ricordo del giallo che fu in un confuso vortice di noir e horror, dove è possibile scovare, fra i finali “aperti”, anche quello dichiaratamente metafisico, dalla ghost story al fantasy. Un’evoluzione, sostengono coloro che intendono “svecchiare” il giallo, che invece somiglia molto più a una rivoluzione, con un ribaltamento traumatico e violento delle posizioni, e il tentativo di confinare in una nicchia sempre più angusta i cultori delle storie scritte secondo un canone forse convenzionale ma certamente affidabile. Cancellate con un colpo di spugna le trame all’insegna del più classico “whodunit”, i colpi dei “rivoluzionari” versano fiumi di inchiostro (di penne stilografiche, piuttosto che di cartucce delle stampanti visto l’inveterato tradizionalismo degli autori di gialli classici) e manovrano metaforiche ghigliottine che tranciano inesorabili ciò che appare rigidamente canonico. Cosa rappresenta infatti meglio del noir i mutamenti contradditori della nostra società, e meglio dell’horror i casi di cronaca nera sempre più efferati e inspiegabili? Sembra una lotta perduta in partenza, ma il buon senso e l’intelligenza dei lettori finisce per ridurre questa contrapposizione a una mera polemica stagionale. Conforta dunque sapere che un numero sempre maggiore di appassionati si è accorto di questo spudorato tentativo di spacciare per giallo un genere incolore e indefinibile, come tutto ciò che rifiuta tout court la tradizione senza avere i mezzi per sostituirla adeguatamente.
Vediamo però come è possibile smontare le tesi radicali che vorrebbero il giallo classico ormai superato, impossibilitato per sua stessa natura a modernizzarsi e inadatto a rappresentare in maniera incisiva i cambiamenti sempre più frenetici e meno governabili della società attuale.
A una lettura più attenta si comprende come il giallo assolva una funzione sociale diversa ma non meno importante del noir, anzi in un certo senso complementare. Esso è per sua stessa natura un percorso a tratti rischioso che trascina il lettore da uno stato iniziale di tranquillità, soltanto apparente, al trauma di un evento drammatico e violento (tipicamente un omicidio), che verrà risolto al termine dell’indagine. Il denouement della vicenda sarà definitivo e univoco, rivelando con chiarezza l’identità dell’assassino, il movente e le modalità del delitto. Il lettore del giallo ha così modo di razionalizzare una tensione creata artificialmente ma non meno verosimile di quella reale, che si dissolverà nella soluzione dell’enigma, lasciando una rassicurante consapevolezza di come si possa affrontare e sconfiggere il male anche quando la sua materializzazione appare inarrestabile e invincibile.
Non basta. Solo un genere letterario di solida struttura e provata esperienza, quella di generazioni di lettori affezionati, può seguire e in qualche caso precedere i fenomeni sociali più impetuosi e imprevisti. Ambienti e personaggi, assassini e investigatori, vittime e moventi sono cambiati nel corso dei decenni, ma sempre inseriti in una struttura narrativa compatta e inesorabile, lucida e impeccabile.
Dalle magioni signorili o dalle tenute di provincia dell’anteguerra la location del giallo si sposta lentamente ma inesorabilmente verso il centro abitato da una borghesia sempre più dinamica, sicura di sé e spaventata nel contempo da una crescita rapida. E non si arresta certo nelle piazze o nelle strade di quartieri a noi familiari, la minaccia nascosta nelle pagine di un romanzo giallo classico, ma procede implacabile fino alla soglia di casa, anzi a ben vedere forse si annida dietro la poltrona del lettore che non riesce a distogliere gli occhi da una trama così avvincente. Niente male, una metafora inequivocabile di come al giorno d’oggi non si riesca a sentirsi sicuri nemmeno tra le mura di casa.
Delitti complicati, architettati da menti raffinatissime che possono gareggiare con i detectives più scaltri, trovano per decenni il proprio movente nelle pulsioni più classiche: odio e vendetta, interesse e passione, gelosia e amore. Ma il contraccolpo sociale del boom economico degli anni ’60 ha strascichi anche nella narrativa di genere: aumentano, anzi crescono quasi esponenzialmente, i fenomeni di malessere psicologico e inadeguatezza, la fragilità nascosta in un bozzolo di sensibilità repressa subisce traumi che finiscono per disintegrare ogni misura della realtà. Adesso gli assassini agiscono per un nuovo movente, non meno valido dei precedenti: ottenere giustizia per un evento traumatico, una violenza, un’offesa, subìti molto o poco tempo prima. Situazioni fisiologiche della vita, in un certo senso, che una persona apparentemente uguale alle altre, ma nell’intimo minata da una psiche fragile e malata, non riesce a razionalizzare e finiscono per condizionarla, alterando il senso della realtà. Un ribaltamento di ruoli che porterà fatalmente a scambiare per giustizia ciò che è solo una vendetta sproporzionata al dolore subito.
A questo punto conviene precisare che giallo non significa solo narrativa (o saggistica sul genere) ma anche cinema, teatro e televisione. Cioè storie che nascono per essere lette ma anche viste, e la percezione del lettore è diversa da quella di uno spettatore. Trame che mutuano comunque caratteristiche e ambientazioni tipiche del giallo classico e nonostante ciò, o per meglio dire proprio grazie a ciò, si rivelano decisive nella rivoluzionaria filmografia italiana dei primi anni ’70, il cui protagonista indiscusso è stato il regista Dario Argento.
Non è dunque un caso che la trilogia iniziale del “maestro del brivido” (“L’uccello dalle piume di cristallo”, “Il gatto a nove code”, “Quattro mosche di velluto grigio”), tetralogia se vogliamo aggiungere il capolavoro assoluto “Profondo Rosso”, non sia altro che una virtuosistica divagazione sul whodunit, ovviamente presentata con una confezione assolutamente innovativa, con un uso spregiudicato e abilissimo del montaggio, delle musiche, degli effetti speciali e delle inquadrature, come le soggettive che permettevano allo spettatore di calarsi nei panni dell’omicida. Il thrilling “argentiano” sconvolge, destruttura e ricompone in maniera deliberata e ineccepibile il giallo convenzionale, e i suoi effetti benefici e rivitalizzanti riescono a irrompere anche nel palinsesto della televisione con “La porta sul buio”, la mini serie in 4 episodi trasmessa nel settembre del 1973 sul Canale Nazionale (attuale Rai1).
Quando l’assassino vestito con un impermeabile scuro, un coltello dalla lama affilata stretto fra le mani che calzano guanti di pelle nera, solleva la tesa del cappello che gli copriva il volto ci accorgiamo che è un personaggio che conosciamo bene, e al solito è il più insospettabile, anzi dobbiamo ammettere che gli indizi seminati dal regista sono proprio quelli che avrebbero permesso anche a noi di scoprire la verità.
Quel dettaglio che un malcapitato testimone oculare ricorda ma non riesce a mettere a fuoco, e alla fine è decisivo per scoprire l’identità dell’assassino (come un quadro che alla fine si rivela essere uno specchio, o un medaglione che oscillando disegna nell’aria l’ultima immagine fissata sulla retina di una vittima) rappresenta un altro elemento del giallo classico e l’ennesima prova di come questo genere, periodicamente sottoposto a critiche e prematuramente dato per estinto, riesca sempre a sopravvivere, cambiando ma senza tradire la propria identità.

di Enrico Luceri

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Leggere gli interventi di Enrico sul giallo classico equivale per me a sfogliare un'enciclopedia... una fonte sempre precisa, chiara ed estremamente attendibilie. Un piacere, come al solito. ciao

nazareno ha detto...

Una dichiarazione d’amore per il giallo classico che solo un inguaribile innamorato, qual è l’amico Luceri, può così genuinamente fare. Ai suoi dubbi sulla “qualità” delle tante proposte noir, aggiungerei quello del cattivo gusto che troppo spesso accomuna questo genere ai programmi televisivi di maggior audience: un miscuglio di stupidità e di gratuita crudeltà.
Né sono esenti da colpe le politiche editoriali dal fiato corto, dove il solo fine è il prodotto omologato alle tendenze del momento. In fondo, nella gran parte dei casi, il racconto non è più un congegno utile a scatenare pensieri, sensazioni e, soprattutto, interrogativi, quanto piuttosto un ulteriore meccanismo nelle mani della cosiddetta società dei consumi per assuefare al conformismo e veicolare i suoi poco condivisibili valori.

Enrico Luceri ha detto...

Ringrazio l'amico e collega Nazareno Valente per le sue parole che condivido in pieno.