Questa è una storia di caratteri forti, di personalità singolari e di carriere fuori dall’ordinario.
Eppure comincia nel modo più semplice, quasi banale: con un signore di mezza età dall’apparenza borghese che esce di casa come ogni mattina per recarsi al lavoro. Ha salutato sua moglie con affetto sobrio, ma non meno profondo, perchè hanno il pudore dei sentimenti delle coppie di qualche generazione fa.
Adesso l’uomo di mezza età è sulla soglia del palazzo. Indossa un cappotto perchè fuori l’aria è fresca e frizzante anche se è quasi primavera. Sfila di tasca una pipa, la infila in bocca e l’accende, aggiustando il tiraggio un paio di volte, quindi s’incammina sul viale alberato lasciandosi dietro una sottile scia di fumo aromatico. Il signore dal fisico massiccio deve fare una lunga camminata per recarsi in ufficio, che si trova distante, dove il fiume attraversa la città ma a lui piace passeggiare sui marciapiedi costeggiati di platani e guardare distrattamente le locandine dei quotidiani appese alle edicole dei giornali o il traffico sulla strada.
Strada, ma avremmo dovuto dire rue, perchè siamo a Parigi, nell’XI arrondissement, e precisamente in Boulevard Richard-Lenoir 132, dove abita quell’uomo dall’aspetto borghese, che è diretto all’Île de la Cité, sulla Senna. I suoi collaboratori lo aspettano al Quai des Orfèvres, nel palazzo dove ha sede la Police judiciaire. Il signore di mezza età che fuma tranquillamente la pipa è un poliziotto, anzi un commissario. Di più: è una leggenda, protagonista di 75 romanzi, 28 racconti, una serie di film, telefilm e sceneggiati di cui si può perdere il conto, prodotti dalle televisioni di nazioni diverse. Perchè lui, il poliziotto, è popolare in tutto il mondo, sulla sua vita e le sue inchieste esiste una saggistica vastissima e ha avuto perfino una versione a fumetti. Un successo che da quasi ottant’anni non conosce flessione, tanto che un paesino olandese gli ha dedicato una statua, inaugurata nel 1966. Perchè una statua e perchè proprio a Delfzjil, accanto alla foce del fiume Eems, sul Mare del Nord?
Per scoprirlo andiamoci, a Delfzjil, ma facendo un salto indietro nel tempo, molto prima che fosse inaugurata la statua dell’uomo con la pipa. Primavera del 1929: c’è un uomo che batte febbrilmente sui tasti di una macchina da scrivere e ogni tanto getta un’occhiata fuori dall’oblò. Osserva gli operai che lavorano a un’altra barca, la sua, che hanno tirato in secco per calafatarla, cioè per fare in modo che sullo scafo non ci siano fessure che lascino infiltrare l’acqua. Fanno rumore, questi operai, non possono farne a meno, così il proprietario della barca ha preso la sua macchina da scrivere sottobraccio e si è rifugiato all’interno di un altro battello, anch’esso tirato in secca poco distante.
Una macchina da scrivere e il silenzio, la calma e la concentrazione necessarie per riempire di lettere il foglio che scorre rapido sotto il rullo, quasi scivolando: quell’uomo è uno scrittore, giovane, perchè ha appena 26 anni, ma molto prolifico (ha già pubblicato oltre 750 racconti e 170 romanzi!) e anche affermato, tanto da aver acquistato quella barca, il cui nome è Ostrogoth. Il giovane scrittore invece si chiama Georges Simenon, è nato nella città belga di Liegi, e la pila di fogli battuti a macchina che si ammucchiano sul tavolino diventeranno un romanzo dal titolo “Piotr il Lettone”.
Chissà se Simenon intuisce che questo romanzo sarà diverso dai precedenti. Forse sì. Forse lo sente, e questa consapevolezza cresce man mano che batte sui tasti della macchina da scrivere, perchè in quei fogli c’è qualcosa, anzi qualcuno, un personaggio, con cui l’autore è destinato a restare legato tutta la vita, un vincolo indissolubile che finirà per diventare quasi una simbiosi. Il personaggio è un poliziotto, un investigatore francese, di quella che un tempo si chiamava la Sûreté e poi diventerà Police judiciaire: Jules Maigret. Il commissario Maigret. Il protagonista di 75 romanzi, 28 racconti, film e sceneggiati e perfino di un fumetto, così popolare che oltre trent’anni dopo proprio Delfzjil, il paesino olandese accanto alla foce del fiume Eems, gli dedicherà una statua, come avviene per gli eroi nazionali o per i figli prediletti di una terra.
Si può infatti affermare che Maigret, sebbene francese e creato da un belga, nasca proprio lì, fra la barca tirata in secca e il cafè Le Pavillon dove Simenon lo concepisce continuando instancabile a prendere appunti o a scrivere a macchina, e non a Saint-Fiacre, come recitano le sue biografie, apocrife o meno. Ovvio, perchè un personaggio nasce dove lo partorisce la fantasia del proprio autore, che in questo caso si chiama Georges Simenon, ha appena 26 anni, è già uno scrittore affermato e forse neanche immagina il successo che lo attende. Una fama e una popolarità destinate a sopravvivergli, quando nel 1989 morirà a Losanna, in Svizzera, dopo una lunga vita densa di successo e gioie, ma anche di dolori e delusioni.
Mentre il commissario Maigret ci piace immaginarlo ancora lì, sul boulevard Richard-Lenoir, mentre s’incammina verso il Quai des Orfèvres fumando la pipa. O alla brasserie Dauphine, a bere un boccale di birra, meglio ancora in un bistrot, a sorseggiare un bicchierino di Armagnac o Calvados.
Ecco, un cafè, un ritrovo così familiare che per tanti parigini, e non solo loro, entrarvi, consumare qualcosa e scambiare una parola con i camerieri come fossero vecchi amici è molto più di una piacevole abitudine: è un rito quotidiano, da assaporare con calma, magari con una Gitanes o una Gauloises appesa a un angolo della bocca, perchè questa è una storia di qualche anno fa, quando non esistevano i divieti di fumo nei locali pubblici.
La stagione è cambiata, adesso è estate. E fa molto caldo.
C’è qualcuno che (perchè c’è sempre "qualcuno che" in un romanzo giallo) che si è seduto al tavolino del Cafè des Sports, all’angolo fra place de la République e boulevard Voltaire, in preda a una forte agitazione. È una giornata torrida e l’uomo suda: non solo per l’afa, ma anche per l’agitazione, perchè è sconvolto. Beve e chiede al cameriere Nestor carta e penna per scrivere una lettera, come si faceva un tempo, quando non esistevano telefoni cellulari o e-mail. Impugna la penna ma resta così, con la mano sospesa in aria, perchè il curioso effetto ottico combinato del vetro del bicchiere e del sole attraverso le vetrate ha rivelato le righe di inchiostro asciugate sulla carta assorbente (siamo alla fine degli anni ’30 e le penne che si usano solo le stilografiche e non le Biro). Sono parole inquietanti e minacciose: “Domani alle cinque del pomeriggio ucciderò la chiromante”. E c’è anche la firma, uno strana firma, misteriosa e incomprensibile: Picpus. Signè Picpus, firmato Picpus.
Scritto nel 1944, ma verosimilmente ambientato negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, “Maigret e il caso Picpus” (“Signè Picpus” nell’originale) è un romanzo che dimostra in maniera esemplare sia l’abilità di Simenon che le capacità intuitive del commissario. Questi è infatti alle prese con un omicidio particolarmente complicato: quello di una chiromante assassinata nella propria abitazione. Fin qui non ci sarebbe nulla fuori dall’ordinario, lo è ciò che precede il delitto. Ovvero quello strano individuo, Mascouvin, che si precipita alla Police judiciaire per raccontare una storia che ha dell’inverosimile. Indebitato fino al collo con una presunta nobildonna che gestisce un salotto dedito più al gioco d’azzardo che alle chiacchiere, Mascouvin ha sottratto ben 1000 franchi dalla cassa della società immobiliare in cui lavora. Subito dopo, travolto dal rimorso, si è recato al Cafè des Sports e ha deciso d’impulso di scrivere una lettera ai suoi datori di lavoro confessando il furto. Ma mentre stava per farlo quel raggio di luce sul vetro, quelle parole e quella firma. Sconvolto, Mascouvin ripete ossessivamente la sua esperienza a Maigret, perplesso per una deposizione troppo assurda per sembrare inventata di sana pianta. Apparentemente. Ma è l’unico a prestare fede a quel sinistro avvertimento, tanto che la notizia della morte di una chiromante sembra quasi fargli tirare un sospiro di sollievo, con un filo di inconsapevole cinismo che Simenon dipana ad arte. Comincia così una delle indagini più complesse e contraddittorie che Maigret abbia affrontato, dove i personaggi coinvolti non hanno nulla in comune, quasi si fossero trovati sul luogo del delitto per una serie di circostanze fortuite. Come il vecchio signor Le Cloaguen, un ex-medico della marina mercantile che dopo una vita di vagabondaggi per mari esotici, trascorre le proprie giornate trascinandosi come un clochard per le strade di Parigi, o la signora Roy, proprietaria dell’albergo Beau Pigeon di Morsang-sur-Seine. O Mascouvin, naturalmente, che sembra tormentato dai sensi di colpa, ma forse è solo la paura che lo spinge a gettarsi nella Senna dal Pont Neuf per rimanere a lungo fra la vita e la morte. Tutti ignari l’uno dell’altro, ma tutti legati da un filo invisibile a quella chiromante, Jeanne, che giace morta sul pavimento di casa sua. Un omicidio annunciato da parole inquietanti rimaste impressa sulla carta copiativa del Cafè des Sports.
Con un’indagine che è un capolavoro d’introspezione psicologica, esperienza, conoscenza della natura umana e sopraffina capacità di cogliere un dettaglio, che rappresentano un incentivo formidabile a fulminanti intuizioni investigative, il commissario Maigret risolve il mistero, svela l’identità dell’assassino e soprattutto ricostruisce con tenacia pari solo alla sua pazienza la fitta rete di complicità, rapporti ambigui e irrisolti che lega, anzi soffoca, tutti i personaggi coinvolti. Ricatto, truffa, omicidio, furto, un campionario di reati commessi da una congrega di individui corrotti e amorali, così privi di coscienza e valori da negare o minimizzare i propri vizi e le proprie colpe. Alcune delle quali, forse, resteranno impunite, e questo è in fondo il messaggio più concreto e inesorabile che Simenon affida al romanzo Signè Picpus: che la giustizia completa forse non esiste perchè è un’astrazione, una meta cui tendere ma senza la ragionevole speranza di raggiungerla.
Un romanzo che si legge tutto d’un fiato, scritto al presente, come sequenze di un film che scorrono sotto gli occhi, in uno stile limpido e fluido, mentre il commissario osserva, studia, scruta le personalità dei sospettati e ne scopre dietro una patina di rispettabilità gli aspetti più imbarazzanti, simile a un entomologo che pone l’insetto sul vetrino e quindi sotto la lente del microscopio per carpirne i segreti della natura.
Signè Picpus ha avuto anche una trasposizione televisiva, trasmessa dal Programma Nazionale della Rai (l’attuale Rai1) in tre puntate (rispettivamente, il 10,15 e 17 Gennaio 1965) come secondo episodio della prima serie dello sceneggiato “Le inchieste del commissario Maigret” (le seguenti andarono in onda nel 1966, 1968 e 1972). Fedele all’originale, come tutti quelli diretti dal regista Mario Landi e sceneggiati dal drammaturgo Diego Fabbri e da Romildo Craveri (anche nei dialoghi che sembrano presi in blocco dai romanzi), 2Maigret e il caso Picpus” ha un andamento lento, perlomeno rispetto alla velocità delle odierne fiction, che diluisce le 172 pagine (riferite al n.11 della collana Mondadori “Le inchieste del commissario Maigret” pubblicato nell’Agosto del 1966) in quasi quattro ore e mezzo di televisione. Un andamento scandito dal ticchettio della pioggia sui vetri di una finestra, mentre il trascorrere del tempo segue il ritmo dei rintocchi di una pendola, o il gioco teatrale di luci che sfuma il giorno nella notte. Un rispetto della struttura narrativa che si concede solo alcune deviazioni dal romanzo, come la gita in motoscafo sulla Senna (in realtà girata in interni, con un fondale così evidente che pare strizzare un occhio complice ai telespettatori), la visita alla contessa nel suo equivoco salotto, e la mancata trasferta a San Raphaël, sulla costa Azzurra.
Gino Cervi non interpreta Maigret, è Maigret, con un’immedesimazione così spontanea e naturale da rendere grottesche certe attuali prove d’autore tese alla caricaturale ricerca di pose da Actor’s studio. L’attore bolognese si cala con straordinaria semplicità nella personalità a tratti burbera e più spesso paterna del commissario, che quando vuole sa essere sottile e ammiccante, come nel duetto con il giudice Comeliau (Franco Volpi), trattato con rispetto che non scade mai nella deferenza, ma anche con rassegnazione e forse un filo di fastidio. Un’interpretazione al pari di altri suoi colleghi attivi in televisione negli stessi anni, come Stoppa, Albertazzi, Buazzelli, Tieri e Gazzolo, animali da palcoscenico, a proprio agio in una televisione ancora priva dei volgari e vuoti barocchismi odierni. Ma Cervi non sarebbe stato Maigret se non avesse avuto al suo fianco un’attrice così efficace e convincente come Andreina Pagnani che ne interpreta la moglie con misura e classe.
Mario Maranzana (tuttora felicemente attivo in teatro) eccelle invece nelle caratterizzazione del brigadiere Lucas, che cerca di somigliare fisicamente al suo capo, nei baffi, nelle pose e in quella pipa accesa, ma senza mai avvicinarsi all’originale. Ma chi ruba letteralmente la scena al protagonista è il grande Sergio Tofano, che nella parte del vecchio Le Cloaguen si esibisce in un campionario di sorrisi sornioni e indifesi, disarmanti nella loro infantile semplicità, quali sanno avere solo certi vecchi.
In fondo è questo che rende eterni i personaggi che amiamo: la nostra memoria, che in qualche caso sfuma nella nostalgia. E se in vita autori e attori hanno dato sostanza e corpo ai protagonisti, quando i primi non ci sono più, come Cervi e Simenon, sono i secondi a dar loro consistenza.
Il commissario Maigret riprende la sua passeggiata eterna lungo i boulevard, lasciando dietro di sé un filo di fumo, si stringe nel cappotto perchè è autunno inoltrato e l’aria è tornata frizzante (nella nostra immaginazione non ci sono pendole o rintocchi e il tempo trascorre come i foglietti che un alito di vento debole come un sospiro stacca dal calendario appeso al muro). Cerca con lo sguardo un bistrot per sorseggiare un Calvados. E se le indagini lo conducono fino a Montmartre, magari fra i pittori e le bancarelle di place du Tertre, forse una fisarmonica accompagnerà con discrezione le note di “Le mal de Paris”, cantata da Michel Moloudji nei titoli di testa e coda di questo sceneggiato ormai lontano nel tempo.
Certo, di lui, di Maigret, hanno bisogno sia chi lo ha creato che chi lo ha interpretato, per vivere la vita della memoria, ma anche noi lettori e spettatori: perchè di un marito così, che accarezza quasi con impaccio la signora Maigret, che ha pudore dei sentimenti, come un tempo, abbiamo bisogno. Perchè di un poliziotto così, che alle fulminanti intuizioni investigative unisce un’esperienza piena di umanità e disincanto, abbiamo bisogno.
Perchè in tempi così grami e privi di certezze, di un uomo così, della sua ferma bonarietà e dei suoi valori abbiamo bisogno.
Eppure comincia nel modo più semplice, quasi banale: con un signore di mezza età dall’apparenza borghese che esce di casa come ogni mattina per recarsi al lavoro. Ha salutato sua moglie con affetto sobrio, ma non meno profondo, perchè hanno il pudore dei sentimenti delle coppie di qualche generazione fa.
Adesso l’uomo di mezza età è sulla soglia del palazzo. Indossa un cappotto perchè fuori l’aria è fresca e frizzante anche se è quasi primavera. Sfila di tasca una pipa, la infila in bocca e l’accende, aggiustando il tiraggio un paio di volte, quindi s’incammina sul viale alberato lasciandosi dietro una sottile scia di fumo aromatico. Il signore dal fisico massiccio deve fare una lunga camminata per recarsi in ufficio, che si trova distante, dove il fiume attraversa la città ma a lui piace passeggiare sui marciapiedi costeggiati di platani e guardare distrattamente le locandine dei quotidiani appese alle edicole dei giornali o il traffico sulla strada.
Strada, ma avremmo dovuto dire rue, perchè siamo a Parigi, nell’XI arrondissement, e precisamente in Boulevard Richard-Lenoir 132, dove abita quell’uomo dall’aspetto borghese, che è diretto all’Île de la Cité, sulla Senna. I suoi collaboratori lo aspettano al Quai des Orfèvres, nel palazzo dove ha sede la Police judiciaire. Il signore di mezza età che fuma tranquillamente la pipa è un poliziotto, anzi un commissario. Di più: è una leggenda, protagonista di 75 romanzi, 28 racconti, una serie di film, telefilm e sceneggiati di cui si può perdere il conto, prodotti dalle televisioni di nazioni diverse. Perchè lui, il poliziotto, è popolare in tutto il mondo, sulla sua vita e le sue inchieste esiste una saggistica vastissima e ha avuto perfino una versione a fumetti. Un successo che da quasi ottant’anni non conosce flessione, tanto che un paesino olandese gli ha dedicato una statua, inaugurata nel 1966. Perchè una statua e perchè proprio a Delfzjil, accanto alla foce del fiume Eems, sul Mare del Nord?
Per scoprirlo andiamoci, a Delfzjil, ma facendo un salto indietro nel tempo, molto prima che fosse inaugurata la statua dell’uomo con la pipa. Primavera del 1929: c’è un uomo che batte febbrilmente sui tasti di una macchina da scrivere e ogni tanto getta un’occhiata fuori dall’oblò. Osserva gli operai che lavorano a un’altra barca, la sua, che hanno tirato in secco per calafatarla, cioè per fare in modo che sullo scafo non ci siano fessure che lascino infiltrare l’acqua. Fanno rumore, questi operai, non possono farne a meno, così il proprietario della barca ha preso la sua macchina da scrivere sottobraccio e si è rifugiato all’interno di un altro battello, anch’esso tirato in secca poco distante.
Una macchina da scrivere e il silenzio, la calma e la concentrazione necessarie per riempire di lettere il foglio che scorre rapido sotto il rullo, quasi scivolando: quell’uomo è uno scrittore, giovane, perchè ha appena 26 anni, ma molto prolifico (ha già pubblicato oltre 750 racconti e 170 romanzi!) e anche affermato, tanto da aver acquistato quella barca, il cui nome è Ostrogoth. Il giovane scrittore invece si chiama Georges Simenon, è nato nella città belga di Liegi, e la pila di fogli battuti a macchina che si ammucchiano sul tavolino diventeranno un romanzo dal titolo “Piotr il Lettone”.
Chissà se Simenon intuisce che questo romanzo sarà diverso dai precedenti. Forse sì. Forse lo sente, e questa consapevolezza cresce man mano che batte sui tasti della macchina da scrivere, perchè in quei fogli c’è qualcosa, anzi qualcuno, un personaggio, con cui l’autore è destinato a restare legato tutta la vita, un vincolo indissolubile che finirà per diventare quasi una simbiosi. Il personaggio è un poliziotto, un investigatore francese, di quella che un tempo si chiamava la Sûreté e poi diventerà Police judiciaire: Jules Maigret. Il commissario Maigret. Il protagonista di 75 romanzi, 28 racconti, film e sceneggiati e perfino di un fumetto, così popolare che oltre trent’anni dopo proprio Delfzjil, il paesino olandese accanto alla foce del fiume Eems, gli dedicherà una statua, come avviene per gli eroi nazionali o per i figli prediletti di una terra.
Si può infatti affermare che Maigret, sebbene francese e creato da un belga, nasca proprio lì, fra la barca tirata in secca e il cafè Le Pavillon dove Simenon lo concepisce continuando instancabile a prendere appunti o a scrivere a macchina, e non a Saint-Fiacre, come recitano le sue biografie, apocrife o meno. Ovvio, perchè un personaggio nasce dove lo partorisce la fantasia del proprio autore, che in questo caso si chiama Georges Simenon, ha appena 26 anni, è già uno scrittore affermato e forse neanche immagina il successo che lo attende. Una fama e una popolarità destinate a sopravvivergli, quando nel 1989 morirà a Losanna, in Svizzera, dopo una lunga vita densa di successo e gioie, ma anche di dolori e delusioni.
Mentre il commissario Maigret ci piace immaginarlo ancora lì, sul boulevard Richard-Lenoir, mentre s’incammina verso il Quai des Orfèvres fumando la pipa. O alla brasserie Dauphine, a bere un boccale di birra, meglio ancora in un bistrot, a sorseggiare un bicchierino di Armagnac o Calvados.
Ecco, un cafè, un ritrovo così familiare che per tanti parigini, e non solo loro, entrarvi, consumare qualcosa e scambiare una parola con i camerieri come fossero vecchi amici è molto più di una piacevole abitudine: è un rito quotidiano, da assaporare con calma, magari con una Gitanes o una Gauloises appesa a un angolo della bocca, perchè questa è una storia di qualche anno fa, quando non esistevano i divieti di fumo nei locali pubblici.
La stagione è cambiata, adesso è estate. E fa molto caldo.
C’è qualcuno che (perchè c’è sempre "qualcuno che" in un romanzo giallo) che si è seduto al tavolino del Cafè des Sports, all’angolo fra place de la République e boulevard Voltaire, in preda a una forte agitazione. È una giornata torrida e l’uomo suda: non solo per l’afa, ma anche per l’agitazione, perchè è sconvolto. Beve e chiede al cameriere Nestor carta e penna per scrivere una lettera, come si faceva un tempo, quando non esistevano telefoni cellulari o e-mail. Impugna la penna ma resta così, con la mano sospesa in aria, perchè il curioso effetto ottico combinato del vetro del bicchiere e del sole attraverso le vetrate ha rivelato le righe di inchiostro asciugate sulla carta assorbente (siamo alla fine degli anni ’30 e le penne che si usano solo le stilografiche e non le Biro). Sono parole inquietanti e minacciose: “Domani alle cinque del pomeriggio ucciderò la chiromante”. E c’è anche la firma, uno strana firma, misteriosa e incomprensibile: Picpus. Signè Picpus, firmato Picpus.
Scritto nel 1944, ma verosimilmente ambientato negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, “Maigret e il caso Picpus” (“Signè Picpus” nell’originale) è un romanzo che dimostra in maniera esemplare sia l’abilità di Simenon che le capacità intuitive del commissario. Questi è infatti alle prese con un omicidio particolarmente complicato: quello di una chiromante assassinata nella propria abitazione. Fin qui non ci sarebbe nulla fuori dall’ordinario, lo è ciò che precede il delitto. Ovvero quello strano individuo, Mascouvin, che si precipita alla Police judiciaire per raccontare una storia che ha dell’inverosimile. Indebitato fino al collo con una presunta nobildonna che gestisce un salotto dedito più al gioco d’azzardo che alle chiacchiere, Mascouvin ha sottratto ben 1000 franchi dalla cassa della società immobiliare in cui lavora. Subito dopo, travolto dal rimorso, si è recato al Cafè des Sports e ha deciso d’impulso di scrivere una lettera ai suoi datori di lavoro confessando il furto. Ma mentre stava per farlo quel raggio di luce sul vetro, quelle parole e quella firma. Sconvolto, Mascouvin ripete ossessivamente la sua esperienza a Maigret, perplesso per una deposizione troppo assurda per sembrare inventata di sana pianta. Apparentemente. Ma è l’unico a prestare fede a quel sinistro avvertimento, tanto che la notizia della morte di una chiromante sembra quasi fargli tirare un sospiro di sollievo, con un filo di inconsapevole cinismo che Simenon dipana ad arte. Comincia così una delle indagini più complesse e contraddittorie che Maigret abbia affrontato, dove i personaggi coinvolti non hanno nulla in comune, quasi si fossero trovati sul luogo del delitto per una serie di circostanze fortuite. Come il vecchio signor Le Cloaguen, un ex-medico della marina mercantile che dopo una vita di vagabondaggi per mari esotici, trascorre le proprie giornate trascinandosi come un clochard per le strade di Parigi, o la signora Roy, proprietaria dell’albergo Beau Pigeon di Morsang-sur-Seine. O Mascouvin, naturalmente, che sembra tormentato dai sensi di colpa, ma forse è solo la paura che lo spinge a gettarsi nella Senna dal Pont Neuf per rimanere a lungo fra la vita e la morte. Tutti ignari l’uno dell’altro, ma tutti legati da un filo invisibile a quella chiromante, Jeanne, che giace morta sul pavimento di casa sua. Un omicidio annunciato da parole inquietanti rimaste impressa sulla carta copiativa del Cafè des Sports.
Con un’indagine che è un capolavoro d’introspezione psicologica, esperienza, conoscenza della natura umana e sopraffina capacità di cogliere un dettaglio, che rappresentano un incentivo formidabile a fulminanti intuizioni investigative, il commissario Maigret risolve il mistero, svela l’identità dell’assassino e soprattutto ricostruisce con tenacia pari solo alla sua pazienza la fitta rete di complicità, rapporti ambigui e irrisolti che lega, anzi soffoca, tutti i personaggi coinvolti. Ricatto, truffa, omicidio, furto, un campionario di reati commessi da una congrega di individui corrotti e amorali, così privi di coscienza e valori da negare o minimizzare i propri vizi e le proprie colpe. Alcune delle quali, forse, resteranno impunite, e questo è in fondo il messaggio più concreto e inesorabile che Simenon affida al romanzo Signè Picpus: che la giustizia completa forse non esiste perchè è un’astrazione, una meta cui tendere ma senza la ragionevole speranza di raggiungerla.
Un romanzo che si legge tutto d’un fiato, scritto al presente, come sequenze di un film che scorrono sotto gli occhi, in uno stile limpido e fluido, mentre il commissario osserva, studia, scruta le personalità dei sospettati e ne scopre dietro una patina di rispettabilità gli aspetti più imbarazzanti, simile a un entomologo che pone l’insetto sul vetrino e quindi sotto la lente del microscopio per carpirne i segreti della natura.
Signè Picpus ha avuto anche una trasposizione televisiva, trasmessa dal Programma Nazionale della Rai (l’attuale Rai1) in tre puntate (rispettivamente, il 10,15 e 17 Gennaio 1965) come secondo episodio della prima serie dello sceneggiato “Le inchieste del commissario Maigret” (le seguenti andarono in onda nel 1966, 1968 e 1972). Fedele all’originale, come tutti quelli diretti dal regista Mario Landi e sceneggiati dal drammaturgo Diego Fabbri e da Romildo Craveri (anche nei dialoghi che sembrano presi in blocco dai romanzi), 2Maigret e il caso Picpus” ha un andamento lento, perlomeno rispetto alla velocità delle odierne fiction, che diluisce le 172 pagine (riferite al n.11 della collana Mondadori “Le inchieste del commissario Maigret” pubblicato nell’Agosto del 1966) in quasi quattro ore e mezzo di televisione. Un andamento scandito dal ticchettio della pioggia sui vetri di una finestra, mentre il trascorrere del tempo segue il ritmo dei rintocchi di una pendola, o il gioco teatrale di luci che sfuma il giorno nella notte. Un rispetto della struttura narrativa che si concede solo alcune deviazioni dal romanzo, come la gita in motoscafo sulla Senna (in realtà girata in interni, con un fondale così evidente che pare strizzare un occhio complice ai telespettatori), la visita alla contessa nel suo equivoco salotto, e la mancata trasferta a San Raphaël, sulla costa Azzurra.
Gino Cervi non interpreta Maigret, è Maigret, con un’immedesimazione così spontanea e naturale da rendere grottesche certe attuali prove d’autore tese alla caricaturale ricerca di pose da Actor’s studio. L’attore bolognese si cala con straordinaria semplicità nella personalità a tratti burbera e più spesso paterna del commissario, che quando vuole sa essere sottile e ammiccante, come nel duetto con il giudice Comeliau (Franco Volpi), trattato con rispetto che non scade mai nella deferenza, ma anche con rassegnazione e forse un filo di fastidio. Un’interpretazione al pari di altri suoi colleghi attivi in televisione negli stessi anni, come Stoppa, Albertazzi, Buazzelli, Tieri e Gazzolo, animali da palcoscenico, a proprio agio in una televisione ancora priva dei volgari e vuoti barocchismi odierni. Ma Cervi non sarebbe stato Maigret se non avesse avuto al suo fianco un’attrice così efficace e convincente come Andreina Pagnani che ne interpreta la moglie con misura e classe.
Mario Maranzana (tuttora felicemente attivo in teatro) eccelle invece nelle caratterizzazione del brigadiere Lucas, che cerca di somigliare fisicamente al suo capo, nei baffi, nelle pose e in quella pipa accesa, ma senza mai avvicinarsi all’originale. Ma chi ruba letteralmente la scena al protagonista è il grande Sergio Tofano, che nella parte del vecchio Le Cloaguen si esibisce in un campionario di sorrisi sornioni e indifesi, disarmanti nella loro infantile semplicità, quali sanno avere solo certi vecchi.
In fondo è questo che rende eterni i personaggi che amiamo: la nostra memoria, che in qualche caso sfuma nella nostalgia. E se in vita autori e attori hanno dato sostanza e corpo ai protagonisti, quando i primi non ci sono più, come Cervi e Simenon, sono i secondi a dar loro consistenza.
Il commissario Maigret riprende la sua passeggiata eterna lungo i boulevard, lasciando dietro di sé un filo di fumo, si stringe nel cappotto perchè è autunno inoltrato e l’aria è tornata frizzante (nella nostra immaginazione non ci sono pendole o rintocchi e il tempo trascorre come i foglietti che un alito di vento debole come un sospiro stacca dal calendario appeso al muro). Cerca con lo sguardo un bistrot per sorseggiare un Calvados. E se le indagini lo conducono fino a Montmartre, magari fra i pittori e le bancarelle di place du Tertre, forse una fisarmonica accompagnerà con discrezione le note di “Le mal de Paris”, cantata da Michel Moloudji nei titoli di testa e coda di questo sceneggiato ormai lontano nel tempo.
Certo, di lui, di Maigret, hanno bisogno sia chi lo ha creato che chi lo ha interpretato, per vivere la vita della memoria, ma anche noi lettori e spettatori: perchè di un marito così, che accarezza quasi con impaccio la signora Maigret, che ha pudore dei sentimenti, come un tempo, abbiamo bisogno. Perchè di un poliziotto così, che alle fulminanti intuizioni investigative unisce un’esperienza piena di umanità e disincanto, abbiamo bisogno.
Perchè in tempi così grami e privi di certezze, di un uomo così, della sua ferma bonarietà e dei suoi valori abbiamo bisogno.
di Enrico Luceri
2 commenti:
Segnalo un post sul tema, sperando di fare cosa gradita:
http://khayyamsblog.blogspot.com/2009/02/giallo-paura-simenon-lartigiano-del.html
Buono il pezzo, bello il titolo.... mi ricorda qualcosa, forse il titolo di un libro?
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