giovedì 4 settembre 2008

Recensioni: "Legami di morte" di A. Marenzana

Capisco se un libro è buono quando mi viene voglia di sottolinearlo. Lo so, lo so, non si sciupano i libri, me lo ha insegnato mio padre. Ma quando ho avuto questo volume tra le mani l’istinto è stato quasi irresistibile, c’erano punti in cui l’autore sembrava stesse parlando la mia stessa lingua. Ecco: questa in assoluto è la matrice di un romanzo ben riuscito, quando ti viene voglia di tirare su il telefono e parlare con l’autore per dirgli che, in effetti, quello che lui è stato capace di esprimere così bene, lo senti anche tu. In scrittura creativa questo meccanismo si descrive come la capacità di andare dal particolare al generale, quando cioè la “storia” narrata si distacca da se stessa in un certo senso, per diventare qualcosa di più, di diverso, di “universale”. Molto più che la banale immedesimazione in un personaggio, in un’atmosfera, in una vicenda. E di questi tempi, appunto, trovare in un autore quel qualcosa in più non è davvero facile.
Un giallo onesto, quello di Angelo Marenzana, senza trucchi e senza inganni, senza effetti roboanti, senza inseguimenti, senza spargimenti di sangue, senza serial killer o omicidi efferati. Senza segreti misteriosi, teorie del complotto, trame politiche o chissà quali oscure macchinazioni di iperboliche sette segrete. Scrivere un libro “senza” tutte queste cose, diventa sempre più difficile ed è, proprio per questo motivo, una vera sfida. Una sfida vincente per l’autore che porta a casa un degno risultato, dal duplice effetto. Quello di aver soddisfatto al tempo stesso sia i giallisti tout court che gli amanti del romanzo mainstream. E quando un autore di gialli o polizieschi si distacca dal genere per sconfinare anche nel mainstream è sempre una scommessa.
Una città che si staglia sullo sfondo vigorosa, tratteggiata con l’amore e la comprensione di chi in quel luogo non solo ci ha vissuto, ma l’ha respirato, l’ha “abitato”, se ne è permeato nel profondo, ascoltando i ricordi e le memorie dei vecchi, dei genitori, degli zii, dei vicini di casa, le chiacchiere al bar … Angelo Marenzana schiude con questo romanzo il baule della memoria per raccontarci il periodo italiano del ventennio fascista, una bella sfida per uno nato nel 1959 che appartiene alla nostra generazione e che di quegli anni ha solo sentito parlare o, al massimo, li ha studiati sui libri di storia. Ma quanta differenza tra quello che viene scritto nei testi scolastici e la storia vera, come l’hanno vissuta quelli che “erano lì”. E con Marenzana in effetti noi lettori siamo tutti lì, a fianco del commissario Augusto Bendicò, quasi esiliato nel suo lavoro, ben contento di essere ridotto a fare da passacarte e da burocrate, in quell’isolamento quasi volontario in cui è stato relegato dalla morte della moglie Betti, recentemente scomparsa per una malattia infida, subdola, sottile e imprevedibile. Una banale difterite che poteva risolversi in pochi giorni e che invece se l’è portata via senza che nessuno potesse far niente. E quella era davvero un’epoca in cui si moriva spesso per un nonnulla. Un periodo in cui l’incertezza del vivere era talmente forte che ci si accontentava della propria quotidiana regolarità, delle poche abitudine domestiche, di un mondo fatto di affetti e di piccole concessioni alla comodità, ben lontano dal lusso e dall’ostentazione dei giorni nostri.
Eppure, anche allora, c’era sempre qualcuno che vive in un modo diverso, sopra le righe, seguendo altre regole e ben altri ritmi. È il caso di Dora, la ragazza più bella del quartiere, che canta in un night club, anche se all’epoca le parole straniere, come i delitti, sono assai sgradite al regime, che vorrebbe imbavagliare la pubblica opinione e gli organi di stampa, giungendo fino al punto di istruire le forze di polizia in merito all’esito “desiderato” di certe indagini troppo scottanti o scomode, per l’immagine di un’Italia che deve apparire sul panorama internazionale limpida e pura, retta e nitida come una fotografia in bianco e nero, senza ombre e senza oscurità. Ma non è di Bendicò l’indagine, bensì di un collega che però gliela cede, forse per scuoterlo, forse per liberarsi da un impegno, comunque sia è da qui che si parte. Da una ragazza morta, che ricorda al commissario la moglie morta e un’altra donna morta poco tempo prima, il cui apparente suicidio, come da istruzioni, è stato camuffato da incidente domestico, compiacendo le disposizioni del regime. Però qualcosa non funziona, quando i superiori di Bendicò vogliono far passare Dora come una donna equivoca, di malaffare, che ha fatto la fine che ha fatto perché cantava canzonette leggere nei locali. Infatti indagando viene fuori invece che, per opinione unanime del quartiere, malelingue comprese, Dora era davvero una ragazza con la testa a posto e che i locali in cui cantava non erano poi così equivoci. Anzi.
Ecco che allora Bendicò rimugina sul caso, ripensa a quella vita che si è spenta così improvvisamente, e … parla con sua moglie. Già, perché come capita ai coniugi che hanno vissuto tanti anni assieme, il commissario quando si sente incerto sul da farsi ha come l’impressione di sapere, per puro istinto, cosa avrebbe detto la sua Betti se solo fosse stata lì, come l’avrebbe rimproverato per essere stato magari troppo frettoloso in un interrogatorio, troppo prevenuto con un testimone, troppo brusco con un collaboratore. Come un angelo custode, l’ombra di Betti accompagna il commissario per tutto il corso dell’indagine e scompare, sfumando, come nella migliore tradizione cinematografica, quando questi arriva non solamente alla verità ma anche a una svolta nella sua vita personale. Conclusa un’inchiesta che lo pone, solo, contro il regime e contro i superiori, rischiando di farlo finire anche nella lista nera della polizia politica, Bendicò ritrova la sua dignità, il suo rigore, il suo spirito, il coraggio di essere se stesso sempre e comunque, indipendentemente dalle circostanze.
Un romanzo storico dunque, un giallo d’epoca, ma con quel tanto di introspezione psicologica che schiaccia spesso l’occhio alle atmosfere più attuali del Noir, ma non il Noir duro, graffiante, metropolitano, ma piuttosto un Noir d’epoca, più avvolgente, soffuso, sfumato. Un GialloNoir di classe, insomma, il mio pane quotidiano e quello di milioni di lettori che giustamente reclamano a gran voce, in un panorama sempre più oppresso da fugaci meteore di oltreoceano, un buon romanzo italiano scritto con le vecchie e intoccabili regole del Giallo puro. Senza eccessi, senza colpi di tamburo, senza fuochi artificiali. La lezione di scrittura più difficile, impartita da un autore che come sua abitudine non tentenna. Per un libro che si ripone con piacere nello scaffale, certi di volerlo riprendere in mano per rileggerlo ancora. E di quanti romanzi angloamericani, oggi, potremmo dire lo stesso?



Legami di morte
Intrighi e delitti in un'Italia a un passo dalla tragedia della guerra
Angelo Marenzana
Anno: 2008
Pagine: 132
Prezzo: € 13,00

di Sabina Marchesi

1 commento:

Elena ha detto...

Mamma mia come mi piace questo blog!!! Complimenti! E dire che ci sono arrivata leggendo un vecchissimo commento su un post del mio blog lasciato da "Angolonero". Io, se voi mi date il permesso, aggiungerei il vostro link al mio blog... fatemi sapere e ancora complimenti!
Elena